Archive for ottobre 2009

Bastarda senza gloria

ottobre 26, 2009

Facciamo che ci sia il festival del cinema a San Paolo e che io mi faccia una bella scaletta di film per passare una domenica avvolta nella magica poltrocina semipelosa delle sale. Facciamo però che sia tanto sprovveduta da non acquistare il biglietto sabato (quando avrei potuto tranquillamente farlo) e che mi tocchi ripiegare sulla modesta visione di una sola pellicola; dal sito evinco infatti che si vendono i cumulativi fino al giorno prima della proiezione e quindi posso permettermi un solo biglietto d’ingresso ordinario. Facciamo che sia indecisa tra il film italiano e quello di Almodovar e che  l’empasse si risolva a favore dell’italiano perchè il sito dei trasporti pubblici non funziona e non so assolutamente come raggiungere il luogo di proiezione dell’Almodovar. Facciamo che sia quasi contenta, visto che adoro i film italiani, perchè agli accadimenti esterni preferisco di gran lunga quelli interiori o al massimo quelli interpersonali. Facciamo che il film inizi alle 19 e 50 e che io esca di casa alle 18. Mettiamoci che scopra, aspettando vanamente, che il mio autobus non sia di servizio nei feriali. Aggiungiamo che cambi fermata e chieda informazioni per un tempo interminabile prima di individuare la retta via. Di nuovo addizioniamo il fatto che non abbia contanti e che non abbia preso la carta di debito nel timore di essere derubata (dato che mi ostino a creder di poter rincasare con i mezzi) e porti con me solo lo stretto necessario per il cinema e l’autobus di ritorno. Ma non smettiamo proprio ora di ipotizzare sulla mia malasorte e pensiamo che non ne azzecchi una, uscendo dalla metro sul lato opposto della Paulista e perseverando nella direzione sbagliata. Facciamo infine (infine sul serio?!) che raggiunga lo shopping center al cui terzo piano si trova il cinema, ma che salga sull’ascensore che serve i piani interrati e, non so con quale logica, solo il quinto di quelli elevati. Dopo un immotivato viaggio per i visceri del parcheggio, diciamo pure che riesca a mettermi in coda per l’acquisto del biglietto. Leggendo di varie proiezioni “lotadas” senza che fra queste appaia la mia, nonostante gli ormai 15 minuti di ritardo sull’ora di inizio, poniamo che ancora senta di potercela fare. Facciamo invece che no, che anche il mio bel film italiano sia “lotado”. Ma che significa poi? Assumiamo quindi che anche quello che, a detta di molti, sembrava un portoghese bene e velocemente acquisito, si riveli del tutto inadeguato per farsi comprendere da un bigliettaio cui non funziona il microfono. Concludiamo che non mi resti altro da fare che ripiegare su una proiezione estranea al festival e, nello specifico, su Bastardi senza gloria, di Quentin Tarantino. Sapendo che lo spettacolo inizierà solo alle nove e che ogni mia illusione di rincasare con i mezzi pubblici va in frantumi, e che mi ritrovo a mangiare cibo turco per mettere a tacere la fame, possiamo anche concludere quella che era solo la premessa: forse ho sviluppato del rancore inconscio verso questo film.

A seguire la premessa, la tesi: questo film è orribile. Capisco di aver rimpiazzato un’indagine intimista con un film di violenza deliberatamente gratuita e stereotipata, ma davvero il mio shock non ha eguali. Primo, la violenza e lo splatter un miglio al di là della mia soglia di sopportazione, senza artefatti fumettistici che stemperino un po’. Secondo, il tema che non credo ancora sdoganato da un doveroso rispetto e che, a mio parere, non dovrà esserlo mai. Terzo, una comicità che in taluni momenti supera quella propria del cattivo a tutti i costi o del vendicatore della notte tutto d’un pezzo (alla Chuck Norris, per intenderci) e che sconfina in un imbarazzante ridicolo mimico. Quarto, Brad Pitt con la mascella di fuori (forse questo appunto meritava di essere il primo). Quinto, a livello di linguaggio cinematografico, ricordo forse un paio di piani sequenza interessanti ma mi domando l’utilità di una suddivisione in capitoli che segue la trama pedissequamente e non crea alcun tipo di intreccio.
Non ci capisco nulla di cinema, mi ripeto uscendo dalla sala, perchè i miei colleghi sono entusiasta di questo film, perchè Tarantino è Tarantino. Ma quando il 24 ore non legge la mia carta di credito e sono costretta a chiedere al tizio della stazione di rifornimento di strisciarmela e di darmi 50 Reali che devolverò interamente al tassista poco più tardi, non posso che continuare a pensare a quanto detesti Bastardi senza gloria.

ottobre 15, 2009

Se si decide di preparare del tiramisú ad un’ora inoltrata della sera, si dovrebbe rinunciare a testare, con assaggi a tappeto, il grado di assorbenza del caffé dei biscotti. Pena l’insonnia tormentata da savoiardi volanti.

ottobre 13, 2009

Doppio pastel (fritto) con cioccolato (fuso, tipo nutella, abbondante. Molto abbondante), rotolato nello zucchero di canna misturato con cannella, bagnato da un bicchiere medio di succo di canna (zucchero liquido).  WTF.

Paul Strand e Henri Cartier Bresson

ottobre 12, 2009

Mese interessante per la fotografia, qui a San Paolo. Si è da poco chiusa l’esposizione di Paul Strand “Olhar direto” che ho avuto il piacere di visitare nel museo Lasar Segall e sarà aperta fino a Dicembre quella dedicata a Henri CartierBresson . Oggi, festa nazionale dei bambini (dia das crianças), ho colto l’occasione per fare un giro al SESC Pinheiros e godermi i lavori del noto fotografo francese.

Riguardo alla mostra: davvero ben fornita, sebbene organizzata secondo una logica che, né a me né ai miei accompagnatori, è stato concesso comprendere. Scoraggiati dalla reciproca ignoranza abbiamo concluso che non dovesse essere colpa nostra: il curatore aveva certamente bevuto.
Non che la grandezza di questi fotografi non si percepisca dai libri che ne parlano, ma vedere raccolti gli scatti realizzati nel corso di una vita, uno in Siberia, l’altro in India, l’altro in Messico… fa un certo effetto. Si percepisce una storia, avventurosa, acuta, attenta, curiosa; una ricerca che termina quasi sempre nell’equilibrio delle forme. Persone capaci di sintetizzare, con un numero relativamente modesto di scatti se si pensa alla grandezza del globo, l’Uomo, la Natura, la Storia.

Riguardo al SESC: un posto terribilmente interessante. SESC Brasil è un’organizzazione culturale dalle proporzioni impensabili per l’Italia: nella sola San Paolo essa si compone di oltre 20 sedi. All’interno di ciascuna ci sono sale per le esposizioni (considerando un minimo di due esposizioni per sede ci si fa già un’idea della portata dell’offerta culturale del SESC), corsi, aule di lettura, internet gratuito, spazio bimbi, biblioteche, mediateche, workshop permanenti dedicati al cinema, al teatro, alla danza, alla musica, alla multimedialità… Vi sono anche palestre e piscine, la cui iscrizione annuale ha un costo modestissimo e permette l’accesso alle strutture SESC di tutto il Brasile. Ovviamente non mancano caffè e ristoranti, questi ultimi, quantomeno nel caso della comedoria del SESC Pinheiros, estremamente economici. La mission del SESC, nato circa sessant’anni fa dall’iniziativa privata di quella che potremmo paragonare alla nostra camera di commercio, è quella di fare dell’educazione un pretesto per la trasformazione sociale. Oggi, giorno di festa, numerosissime famiglie assistevano alle iniziative rivolte ai più piccoli. Una partecipazione tanto numerosa  delle famiglie italiane si ottiene solo in occasione delle sagre e delle fiere. Meglio se al grido di “costine e salamelle per tutti!”.

Io, quantomeno, ho in seguito rifiutato di visitare l’esposizione dedicata ad Isabelle Huppert (è l’anno della Francia in Brasile e se ne commemorano  le massime espressioni  artistiche con esposizioni ed iniziative culturali sparse per la città) per un piatto di moqueca bollente e ben speziata. Decisamente un altro paio di maniche…

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Belo horizonte

ottobre 12, 2009

Belo Horizonte è la capitale dello stato di Minais Gerais e si trova a circa cinque ore di auto da San Paolo (otto ore se si prende l’autobus, un’ora con l’aereo).
Non ci saremmo mai spostati nell’ interior (per i Brasiliani il Brasile è due sole cose: l’interior e il litoral), se non avessimo avuto ad accoglierci là Stefania, una ex compagna delle elementari di Matteo, trasferitasi in Brasile con la famiglia da molti anni.

Belo Horizonte è infatti in primo luogo un centro economico (qui hanno sedi la Fiat, Iveco, Marelli, Google, Brembo freni…) e da vedere c’è poco e quasi tutto riferito all’architetto Oscar Niemeyer. Qui l’architetto ha realizzato un complesso di edifici noti come “complesso Pampulha” e la chiesa di San Francesco d’Assisi, primi esemplari di architettura moderna in Brasile. Tuttavia, grazie alle nostre guide, piuttosto che dedicarci agli aspetti culturali della città, ne abbiamo vissuto il lato “upper east side”: locali, drink, auto e vita in.
Stefania e famiglia vivono in una bellissima villa all’interno di un condominio situato nella parte più alta della città.
Per condominio, in Brasile, s’intende un complesso residenziale chiuso e vigilato, nel quale si entra solo previo riconoscimento. Nei condomini chiusi si trovano ovviamente le case più belle del Brasile: giganti, bianchissime, con giardino, piscina e spazi sportivo-ricreativi per tutti i gusti. Due cose da ricordare: in casa di Stefania si può gettare la carta nel wc e il suo giardino (cui mamma Licia dedica le proprie ore) fatica forse a buttar fuori un’erbetta inglese come si deve, ma sputa quarzo rosa ovunque.
Gli stati arabi, sappiamo, sono ricchi di petrolio;  ciò non significa tuttavia che, piantando un albero in giardino, tu ti imbatta necessariamente in un giacimento di oro nero. Lo stato di Minais Gerais (miniere generali, appunto) è tanto ricco di materie prime che non puoi scavare una fossa per il tuo criceto passato a miglior vita, senza trovare qualche pietra dura. La terra è rossissima, argillosa, ferrosa, fantastica nel suo contrasto con il verde intenso delle colline da pascolo (la zona è altresì famosa per l’allevamento e la produzione casearia).

Terminata la ricca colazione offerta dalla mamma di Stefania, le nostre guide ci portano a visitare Ouro Preto (letteralmente “oro nero”, dal colore della pietra da cui si ricava l’oro). Prima di cedere alle loro naturali inclinazioni (e fare della visita un velocissimo safari in auto), si sforzano di condurci all’interno di una delle numerose chiesette barocche sparse per la città. Sulla volta, l’ascensione al cielo di Maria, una stupenda Maria mulatta.
Qualche passo tra i negozietti della cittadina coloniale è sufficiente per rendersi conto della quantità di gioiellerie presenti; davvero un’esplosione di intriganti trasparenze colorate e preziose. Numerosi anche i manufatti in pedra sabon, una pietra morbidissima che si scalfisce con un semplice punteruolo.
Agli angoli della strada loschi individui ti invitano a guardare la loro mercanzia avvolta in panni scuri. Non si tratta di droga, sono contrabbandieri di pietre preziose. Ci sono luoghi al mondo in cui è più facile spacciare diamanti che marijuana. Ci sono luoghi al mondo in cui ricche signorotte si dedicano (oltre che ai tornei di scala quaranta con i genitori di Stefania) alla confezione di orecchini con zirconi piuttosto che al decoupage. Si fa quel che si può, insomma.
A seguire pranzo con cucina tipica e via, di nuovo, in auto.

L’indomani pranziamo con i genitori e il loro circolo di amici italiani in un ristorante sperduto nella campagna: carne e caipirinha ed una sorprendente pasta come solo in Italia sappiamo fare.
Un ultimo giro per locali prima di prendere l’autobus che ci ricondurrà a San Paolo, sul quale trascorreremo quattordici ore a causa di un incidente in autostrada. Roba che, con quelle ore di viaggio, ce ne tornavamo in Italia a fare un salutino…

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Altre foto qui

Pão de queijo

ottobre 11, 2009

Dopo la mia, parliamo della dipendenza culinaria di un’altra italiana in Brasile; senza fare nomi, l’interessata si riconoscerà immediatamente non appena digiterò la parolina magica: pão de queijo.

Il pane al formaggio è diffusissimo, lo si trova ad ogni angolo della strada. Venduto come snack o antipasto più che come companatico (nei paesi tropicali il pane è sostituito dal riso in questo ruolo), ha  un formato estremamente consono a tale funzione: le pagnotte sono piccole e tonde, solitamente più piccole del nostro pane al latte. Non esistono varianti di questo alimento, ma solo posti in cui è davvero buono e posti in cui non lo è. Quando non è particolarmente buono, il pão de queijo è vuoto e gommoso, con un triste e lontano aroma di formaggio; quando è preparato ad arte ha una crosta croccante e un cuore ben lievitato ma non cavo, con una goccia viva di formaggio. Superfluo specificare che offre il meglio di sè se servito caldo.

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Mandioca fritta

ottobre 8, 2009

Eccoci, finalmente, a parlare della mia dipendenza culinaria. Lo ammetto, ho un problema, ma non voglio risolvero in alcun modo.

La mandioca (da leggersi mangioca) è una radice originaria del Brasile e poi esportata ovunque fino a fare della Nigeria il suo maggior produttore. La sua consistenza è simile a quella della patata, ma con una buccia più scura, più spessa e più dura e se ne fa praticamente un uso identico: si può farne farina, si frigge, se ne fa una purea o si usa come ingrediente in molti piatti, dolci e salati. Una volta che la si è provata fritta, però, ci si convince che il suo fine elettivo sia proprio quello di giacere nel piatto tagliata a pezzi grossi, unta e croccante. Credo non abbia nemmeno bisogno di essere salata, tant’è saporita di natura. Si riconosce una buona mandioca fritta dalla presenza di sfilacciamenti che, passati in olio, diventano la parte più fragrante ed apprezzata di ogni singolo boccone.

Mi domando perchè mai le cose più buone debbano essere fritte. Perchè ad un piacere si debba sempre associare un senso di colpa. Perchè mai siamo sistemi vulnerabili, che s’ingolfano, arrugginiscono o deformano se vi introduciamo, in quantità ragguardevoli, determinate sostanze. Qualcuno mi dia una risposta.

Non m’importa chi sono, da dove vengo e dove vado; m’importa sapere perchè mai non posso nutrirmi di sola mandioca fritta.

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CLUB NOIR, rua Augusta 331

ottobre 6, 2009

Poichè il portoghese è la mia lingua madre, ho pensato bene di assistere a teatro ad un pezzo di Kafka. Ed ho sul serio pensato bene! Al di là di qualche ovvia falla nella mia comprensione del testo, l’esperienza si è rivelata davvero emozionante. Il teatro dove abbiamo assistito alla rappresentazione era minuscolo: nessun palco e tre lunghe gradinate sulle quali erano disposte non più di trentasei sedie. Gli attori li hai di fronte, le luci di scena coinvolgono anche te.

Nonostante la presenza di due personaggi, il pezzo è sostanzialmente un monologo in cui un uomo parla ad un’ipotetica aula accademica del suo processo di trasformazione da macaco a essere umano. Le questioni messe a fuoco da quest’allegoria sono molte e profonde: la distanza tra insegnante (mittente) e studenti (riceventi), la relatività del concetto di progresso, la libertà, la natura dell’uomo, il rapporto uomo-natura…Interessanti dunque i contenuti e altrettanto sorprendente la forma: in uno spazio così angusto, nient’altro che l’attore, il pubblico, una pipa, un  trofeo di caccia al muro, una sentinella muta, una corda a separare lo spazio della rappresentazione dai posti a sedere; prevalenza del buio e luci minime ma sapienti, in grado di tracciare sul volto dell’attore i lineamenti del primate; nessun, letterale, scimmiottamento delle fatture animalesche. Lodevole l’interpretazione dell’attrice, tanto brava che tutti ci siamo resi conto del suo sesso solo grazie alla voce naturale esibita ai commiati.

Era molto tempo che non andavo a teatro e questa serata ha riacceso una piccola scintilla di affetto e nostalgia verso questo tipo di rappresentazioni intime e sincere. Poi la serata è proseguita in rua Augusta (dove si trovava il teatro), la zona più alternativa e squinternata di San Paolo. Mentre le ore si facevano piccole, il numero delle persone, degli sterei a palla, delle prostitute avvolte in lurex e lattice si faceva sempre maggiore.

Un movimento continuo, uno scambio senza sosta, in una di quelle città che non dormono mai.

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Gelatine

ottobre 5, 2009

Il consumo di snack, dolci o salati, e di qualsiasi altro prodotto alimentare di sintesi industriale qui è altissimo. Ma arrivare a spacciare per un equivalente della frutta una cosa del genere è, ho pensato, da raccontare. Capita infatti che un brasiliano possa offrirti della gelatina al posto di un’insalata di frutta, con argomentazioni della serie: “è uguale, ha le stesse vitamine”, oppure, “questa è più buona della frutta e fa bene uguale” o, ancora, “ai miei figli do la gelatina perchè costa meno della frutta, rende di più e loro son più contenti”. Potenza della pubblicità!

Fortuna che io adoro la frutta e non ho bisogno di barattarla con questo ectoplasma colorato. In compenso non digerisco il latte, ma per questo c’è Kinder, con più latte e meno cacao.

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Fantozzi 2. La vendemmia.

ottobre 5, 2009

Ho scoperto, per caso e a giorni di distanza, che il sisastroso lunedì di spesa e sabotaggi divini non si è esaurito nelle  mirabolanti avventure narrate in precedenza. In uno slancio di solidarietà, un mio collega mi ha svelato che la mail inoltrata a tutto lo studio per avvisare della mia assenza conteneva un errorino.

I verbi “sedere” e “sentire” (nel senso di sentirsi), in portoghese, sono rispettivamente “sentar” e “sentir”. Il fatto che io non fossi al corrente di questa prossimità ortografica e che il portoghese abbia più eccezioni che regole, mi ha indotta ad affermare via mail, ad ognuno dei miei circa trenta colleghi, il seguente: non sarei andata al lavoro quel lunedì (giorno in cui le persone ritornano alle scrivanie con i segni dei bagordi del fine settimana) perchè non mi sedevo molto bene e preferivo rimanere sdraiata a letto.

Non c’è stato nemmeno bisogno che mi riportasse alcuna battuta di quelle esplose al momento della lettura collettiva: me le sono immaginate tutte.

Come nel celebre romanzo, seppur non scarlatta, una lettera può cambiarti la reputazione…


Fantozzi in Brasile

ottobre 1, 2009

Decido, una mattina, di marinare il lavoro per fare quella spesa che rimando da due settimane; poichè si lavora per comprarsi il pane, mi sento pienamente legittimata a farlo. Vado dunque in quei del Comprabem, perchè il Carrefour (decisamente migliore sia a livello esperenziale che di fornitura) è un po’ lontano ed intendo prendermi una mattinata e non l’intera giornata per procacciarmi il cibo. In netto contrasto con la rinuncia al Carrefour per motivi di tempo, mi fermo mezz’ora circa in un negozio dell’usato e me ne esco con una borsettina a tracolla.

Entro nel supermarket con le migliori intenzioni: sto spendendo troppo (la borsetta prende a pulsare colpevole nella borsa più grande che la contiene) e devo fare economia sul cibo (Dio ci salvi dal rinunciare a vestiti ed accessori). Nonostante ciò mi lascio prendere la mano ed alla fine ho da portarmi via una decina di sacchetti pesantissimi, perchè in casa mancava tutto, dal dentifricio alla birra. Data la bassa estrazione di questo supermarket, all’esterno non c’è nemmeno l’ombra di un taxi e, guardando i miei polpastrelli diventare piccoli insaccati bluastri, realizzo che sarà ‘na traggedia.

A pochi passi dall’uscita mi sgattaiola fuori dalle borse una scatoletta di tonno; per raccoglierla devo chinarmi, abbandonare i sacchetti a terra e, mentre questi si afflosciano e tutto il contenuto prende a rotolare sul marciapiede e la borsa da passeggio mi scivola dalla spalla, recupero il tonno disobbediente e margino tutti gli altri tentativi di diserzione. Ricomposta, con i primi capelli che si appiccicano alla nuca, riprendo il cammino.

Dopo trecento metri mi piombano sulle dita dei piedi tre lattine di birra. Di nuovo mi fermo, abbandono le zavorre a terra, recupero le latte, mi bagno con una di queste che si è forata e accetto l’aiuto di una commessa che mi offre una sacola (sacchetto) nova. Mi rimetto in viaggio; il Comprebem che prima sembrava così vicino rispetto al Carrefour mi pare ora dall’altra parte della città. Probabilmente il valore della mia velocità di crociera è un numero negativo.

Dopo altre poche centinaia di metri inciampo in una mia bottiglia d’acqua. Comincio seriamente a valutare la possibilità di piangere, ma non posso, di fronte a un brav’uomo che mi soccorre regalandomi il secondo sacchetto di rinforzo.

Alla fine arrivo a casa e penso pure di essere un poco fortunata quando l’omino delle pulizie termina di limpare l’ascensore e me lo offre, profumato e pronto al piano terra, tenendomi la porta spalancata. Maledetto voltagabbana!: l’elevador non fa in tempo a raggiungere il settimo piano (ed io ad inchinarmi per impugnare le mille maniglie di plastica) che lui lo richiama in basso. Presa dal panico allungo una mano per intercettare il sensore; anzi, lo raggiungo prima con un sacchetto (ormai mia appendice naturalizzata), ma la porta dell’ascensore non muta programma e si chiude stritolando il mio povero aiutante. La pressione rivela chi, dietro il velo di poliuretano bianco, sta davvero combattendo questa battaglia: due confezioni di Activia alla prugna (la prugna é per assicurarmi che funzionino…). Spaventata dall’eventualità  di rimanere bloccata in questa cabina sospesa o di provocarne un guasto irrimediabile, elaboro velocemente e decido di pigiare  di nuovo il bottone del settimo piano. Inquadro l’obiettivo e vi scaglio contro la mano libera e sudaticcia; atterro sulla placca di metallo con l’intero palmo, per cui concentro l’intenzione motoria sul dito indice, allontano di poco la mano e ripeto il lancio; ecco il tasto infossarsi e splash! Lo yogurt capitola sotto il torchio della porta metallica e mi esplode in faccia.Il bottone si è illuminato, la porta si apre. Sparisco velocemente dal pianerottolo e reinoltro l’infernale bussola viaggiante al mittente. L’omino delle pulizie ora ha un Pollock di yogurt alla prugna da rimuovere dall’ascensore.